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Fast and Greedy: una corsa tutta da perdere

2021-06-28 09:30

Riccardo Rebollo

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Fast and Greedy: una corsa tutta da perdere

C’è però una differenza evidente al giorno d’oggi tra chi paga, più  o meno denaro, per comprare un vestito e chi, invece, ne paga le conseguenze.

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I vestiti sono forse una delle poche cose che veramente unisce tutti, chi più chi meno, è ovvio, ma pochi sono realmente immuni alle mode, all’intreccio tra trama e ordito che si posiziona nelle nostre vite e ne scandisce il ritmo. C’è però una differenza evidente al giorno d’oggi tra chi paga, più o meno denaro, per comprare un vestito e chi, invece, ne paga le conseguenze

 

 

Il Fast Fashion è un fenomeno invisibile e pesante; letteralmente vuol dire moda veloce ed è proprio la velocità il fenomeno in questione

 

 

Andiamo sempre più veloci, su tutto, e l’attitudine con la quale compriamo abiti sicuramente non ne risulta meno influenzata. Parlare, raccontare, coinvolgere, educare. Questi sono i desideri, le passioni, che ci hanno spinto a metterci in gioco, a cercare di costruire qualcosa. Questo, e solo questo, è ciò a cui tenteremo di dar forma.

Nuovi marchi, nuovi negozi, nuovi palazzi, nuove collezioni, nuove pubblicità e tutto che cresce, si moltiplica e risuona al ritmo di sconti, promozioni, moda per tutti e prezzi ribassati. Il conto alla fine non viene pagato in cassa, lo pagano lavoratori e lavoratrici che, nei Paesi dove ormai quasi tutta la produzione tessile è stata delocalizzata, ricevono paghe misere che non permettono loro una vita dignitosa; lo pagano i bambini e le bambine che vengono impiegati per impollinare e raccogliere il cotone; lo pagano fiumi, mari e campi in cui vengono sversati i resti delle produzioni e lo paghiamo anche noi, noncuranti del fatto che tutto ciò avviene per assicurare il maggior numero di capi al minor prezzo possibile ai Paesi dove i vestiti vengono consumati e non indossati. 

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Il problema è la voracità

 

Il caso più emblematico è rappresentato forse dal crollo del Rana Plaza a Dacca, in Bangladesh, nell’aprile del 2013, un palazzo di 8 piani che ospitava alcune fabbriche tessili sotto le cui macerie persero la vita 1129 persone ed altre 2500 rimasero ferite. Le segnalazioni di crepe nei muri da parte dei lavoratori nei giorni antecedenti al crollo furono numerose e rimasero inascoltate, così come le richieste di formare sindacati di settore. 

Da quel momento l’attenzione mediatica dei Paesi Occidentali si spostò sulle condizioni lavorative considerate disumane nel settore tessile nei paesi in via di sviluppo, specialmente nel Sud-Est asiatico e nell’Europa dell’est; sui salari così bassi da non garantire una vita dignitosa ( si stima che lo stipendio medio per un lavoratore o lavoratrice del tessile in molti Paesi sia di 1/6 rispetto ad uno stipendio considerato normale nel nostro Paese), nonché sulle condizioni igienico-sanitarie di operatori che vengono a contatto con sostanze estremamente nocive senza adeguate precauzioni e tutele o, ancora, sul problema del lavoro minorile, dove si stimano 152 milioni di ‘lavoratori’, di cui 7 su 10 impegnati e impegnate in agricoltura, compresa la raccolta del cotone.

Una nuova sensibilità, a cui fecero seguito diversi cambiamenti e prese di posizione da parte di persone, gruppi e governi, scaturì proprio da questa attenzione mediatica. 

Il gioco al ribasso sui prezzi adoperato da marchi di moda così detta Fast Fashion ha investito tutti: i consumatori, che si sono trovati ad avere a disposizione nuove collezioni a prezzi stracciati ogni settimana, ed i produttori terzi che sono stati invece costretti ad accettare lavori a prezzi sempre più ridotti per rimanere concorrenziali sul mercato. Questo ha travolto con un’onda d’urto i lavoratori, che si sono visti diminuire sempre di più i propri salari e, insieme ad essi, anche le condizioni sanitarie e di sicurezza sul lavoro. 

 

 

Questa ‘bulimia d’acquisto’ sempre al ribasso

che dilaga nella società genera un circolo vizioso

 

 

La domanda crea l’offerta, una semplice regola di mercato ma, in questo caso, è l’abbondanza di offerta a prezzi così bassi e accessibili a tutti a creare questa irrazionale frenesia di acquisto. 

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Oggi più che mai le questioni ecologiche sono sempre urgenti, importanti e collegate ad un ventaglio sempre più ampio ed eterogeneo di situazioni. La moda non ne è esclusa. Parliamo di un’industria tra le più inquinanti al mondo in cui le numerose fasi di lavorazione producono scarti e sottoprodotti nocivi tanto all’ambiente quanto agli esseri umani e agli animali. Passiamo dalle elevate emissioni di CO2, responsabili del riscaldamento globale, ai metalli pesanti contenuti nei coloranti che vengono usati nella fase di tintura, nocivi per la pelle tanto quanto per le acque reflue dove vengono dispersi.

 

 

Si stima che il 20% dell’inquinamento mondiale

dei corsi d’acqua derivi dall’industria della moda 

 

 

Ciò avviene non solo a partire dai residui delle lavorazioni scaricati direttamente nelle acque ma anche a seguito della mole di indumenti che, a partire dalle discariche, si riversa nei fiumi che si trovano in prossimità. Una quantità spropositata di capi d’abbigliamento usati provenienti dall’ Europa come da altri Stati viene spedita in diversi Paesi del continente africano e solo una parte di queste grandi quantità, quelle in buono stato, viene rivenduta nei mercati locali, mentre tutto il resto finisce in grandi discariche che questi stessi Paesi non sono in grado di gestire e smaltire adeguatamente. 

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Il prezzo ridotto dei capi acquistati nei negozi di Fast Fashion esaspera il gioco

 

 

Un indumento comprato ad un prezzo stracciato è spesso qualcosa a cui non viene attribuito un gran valore, è qualcosa di superfluo, qualcosa che si può avere nell’armadio anche se non si è sicuri poi di mettere. La facilità con la quale i capi vengono acquistati è la stessa con la quale essi vengono poi gettati, la stessa con la quale finiranno in discariche a cielo aperto, fermi, a marcire sotto i raggi del sole o le piogge battenti, per anni ed anni, producendo inquinamento per l’aria, per i corsi d’acqua, per le terre e le popolazioni che abitano quelle stesse terre. 

Nonostante ciò sono numerose le realtà che da anni sono impegnate nella vendita o nella donazione di indumenti usati lungo una filiera del riutilizzo controllata e tante altre si stanno affacciando su questo panorama attraverso app, negozi second hand e campagne di sensibilizzazione; anche a livello legislativo diversi Paesi, tra cui l’Italia, stanno ponendo le basi per arrivare ad una gestione circolare dei rifiuti tessili. 

Comprare meno è possibile, è possibile comprare capi di qualità maggiore, duraturi; è possibile dare il giusto valore agli indumenti e pagare per quel valore. Tante sono le imprese che si stanno affacciando nel mondo della moda con un’idea di produzione diversa, che rispetti l’ambiente, gli animali, le persone ed i consumatori; che si mettono in prima linea per dare trasparenza ai metodi di produzione, ai materiali scelti ed ai costi reali di un indumento. 

 

 

È possibile rendersi conto di cosa

si nasconde dietro l’intreccio tra trama e ordito 

 

 

Tanti passi avanti sono stati fatti dalle aziende di settore, comprese quelle della Fast Fashion, e tanti altri dovranno essere fatti. Siamo noi consumatori pronti a fare scelte consapevoli?